Per
affrontare adeguatamente il tema che mi è stato proposto «La figura
dell’altro nell’Induismo», ritengo si debba parlare innanzitutto della
alterità dell’Induismo rispetto al Cristianesimo; una alterità mal compresa che
ha generato e diffuso fraintendimenti e pregiudizi che perdurano fino ad oggi.
Una delle
difficoltà fondamentali sta nel fatto che l’Induismo non possiede nè una Chiesa
ufficiale, nè una dottrina universalmente vincolante, per cui il cristiano o la
cristiana che vogliano capirci qualcosa rimangono disorientati.
Un mio
professore usava ripeterci che è più facile riconoscere uno hindu ortodosso
piuttosto che definire che cosa sia l’ortodossia hindu.
Molti
fraintendimenti nascono anche dal fatto che siamo abituati a considerare
l’Induismo come un’unica religione e come una religione politeistica.
In realtà
Induismo è un concetto coniato dagli occidentali, i quali, allorché iniziarono
ad occuparsi dell’universo religioso indiano, non si resero conto del fatto che
gli indiani non avevano una sola, bensì più religioni.
Gli studi
indologici moderni cercano di correggere questo errore.
Perciò, se
vogliamo continuare ad usare il termine Induismo, dovremo farlo nella
consapevolezza che si tratta di un nome collettivo, un nome con il quale
indichiamo non una sola religione, ma un collettivo di religioni.
Visnuismo,
Sivaismo e Saktismo non sono tre sette all’interno di una stessa religione, ma
tre religioni diverse che non adorano come divinità suprema lo stesso dio, che
non si basano sugli stessi libri sacri, che non si richiamano agli stessi
fondatori o teologi.
Religioni
diverse, dunque, che hanno in comune uno spazio geografico, alcune tradizioni,
alcune dottrine, ma soprattutto una finalità: quella di dischiudere all’essere
umano un accesso all’assoluto e alla salvezza.
Affrontando
quindi la questione della alterità intrareligiosa dovremo dire che essa è
uno dei caratteri costitutivi dell’Induismo.
Tale alterità
in generale non costituisce affatto un problema. L’unità infatti riguarda il
fine da raggiungere, cioè la salvezza, mentre, per quanto riguarda i modi per
raggiungere il fine, essi possono essere molteplici. A dire il vero la
molteplicità delle vie, per l’Induismo non solo è possibile, ma è addirittura
necessaria dal momento che gli individui sono diversi l’uno dall’altro, con
attitudini, esigenze, bisogni ed evoluzioni distinte. Perciò nell’Induismo vi è
tolleranza ed è difficile che colui che si faccia portatore di una sensibilità
diversa sul piano della fede venga considerato «eretico».
Laddove è
difficile dire cosa sia la ortodossia, è altrettanto complicato riconoscere
l’eresia. È infatti difficile parlare di eresia in un universo religioso che non
pone se stesso come assoluto e che non pretende di affermare una dottrina
universalmente vincolante.
Il Dio supremo
nell’Induismo non vede nei culti rivolti ad altri dei un abominio, nè considera
gli altri dei come rivali.
Nella
Bhagavadgita (V sec. a.C.), uno dei testi sacri dell’Induismo, il dio Krsna
si rivolge all’eroe Arjuna affermando:
«Anche coloro che sono devoti ad altri dei, e, armati di fede, recano loro onore,
anche essi proprio me, o figlio di Kunti, onorano, benché non proprio in forma
giusta» (Bhagavadgita IX,23).
Naturalmente
non viene detto che sia indifferente quale dio si adori, nè che tutte le vie
siano di uguale valore. Anche nell’Induismo il seguace di una certa via
considererà la propria religione come la migliore; però non affermerà che le
altre vie siano false o che conducano alla perdizione.
Accanto alla
propria visione religiosa ci sarà spazio per la visione religiosa dell’altro. Lo
sivaita considererà come dio supremo Siva, senza per questo entrare in conflitto
con il visnuita, per il quale invece il dio supremo sarà Visnu. Entrambi
concorderanno forse sul fatto che in fondo c’è un unico Dio che si manifesta
assumendo nomi e forme diverse.
Le tre
divinità principali dell’Induismo, Brahma, Visnu e Siva, si ritrovano, non a
caso, unite in un’unica rappresentazione detta trimurti, una sorta di
trinità nella quale Brahma ha il ruolo del dio che crea l’universo, Visnu quella
del dio che lo preserva, Siva quella del dio che lo distrugge per permettere la
nuova creazione.
Continuando la
riflessione sulla alterità intrareligiosa può essere interessante notare
come nell’Induismo l’altro per eccellenza sia proprio Dio, perché è Dio stesso
che nel suo manifestarsi si fa sempre di nuovo altro da sè.
Il
Cristianesimo conosce la dottrina della incarnazione in base alla quale Dio si è
incarnato una volta e per tutte in Gesù Cristo. Nell’Induismo, in particolare
nel Visnuismo, esiste la dottrina degli avatara (letterelmente: «discese»),
in base alla quale il dio Visnu si incarna in forme diverse in epoche diverse.
Una di queste
incarnazioni è Rama, l’altra è Krsna. Ebbene, si tratta di due figure
diversissime l’una dall’altra, sebbene entrambe manifestazioni dell’unico Dio.
Questa
alterità diviene ancora più evidente quando si consideri il fatto che
nell’Induismo convivono insieme concezioni di Dio diversissime le une dalle
altre. Il Visnuismo, lo Sivaismo e lo Saktismo credono in un Dio personale che
ha nome e forma e può essere dunque rappresentato con immagini. Ma mentre i
primi due raffigurano la divinità con tratti maschili, lo Saktismo lo fa con
tratti femminili. Tutti e tre concordano comunque nell’affermare che Dio
possiede qualità e attributi per cui si può dire che Dio ama, che è buono, bello,
misericordioso, etc..
Accanto a
queste concezioni personali di Dio troviamo però concezioni impersonali,
talvolta estremamente astratte, secondo le quali Dio non ha né nome, né forma,
né attributi, né qualità, né sentimenti, né emozioni, e perciò non è
rappresentabile in alcun modo.
È questa ad
esempio la visione espressa dalle Upanisad (850-500 le più antiche,
600-300 medie), testi religioso-filosofici che piuttosto che parlare di Dio
preferiscono parlare in modo neutro dell’assoluto, del Brahman, lo
spirito universale divino, al quale corrisponde l’Atman, lo spirito
individuale umano.
Secondo questi
testi il compito dell’essere umano che voglia raggiungere la salvezza è quello
di realizzare in se stesso l’identità tra Atman e Brahman,
annullando così quella illusione in base alla quale il mondo viene percepito
come realtà e molteplicità.
Coloro che
sostengono tale concezione (i Vedanta) non necessariamente disprezzeranno
quelli che adorano la divinità prostrandosi davanti ad un’immagine di legno o
pietra. Probabilmente riterranno che quelle persone sono ancora ad uno stadio di
evoluzione spirituale primitivo e che magari avranno bisogno di una lunga serie
di morti e rinascite prima di giungere ad una comprensione religiosa più matura.
Nel frattempo gli uni continueranno a vivere tranquillamente accanto agli altri.
Alcuni degli
elementi messi in luce fino ad ora ritornano anche a proposito della questione
della alterità extrareligiosa che, nel caso dell’Induismo, è stata
spesso legata alla questione della alterità etnica.
Se è difficile
sentir parlare di eresia in seno all’Induismo è altrettanto difficile che gli
hindu chiamino “infedele” colui che proviene da un altro universo religioso e
culturale. Il termine infedele è entrato certamente a far parte del
vocabolario di quelle religioni che rivendicano la pretesa di assolutezza (Cristianesimo
e Islam), ma è rimasto piuttosto estraneo al vocabolario hindu.
La tolleranza
induista non è limitata alle religioni nate sul territorio indiano, ma si
estende anche a quelle che vi sono arrivate nel corso della storia.
Certo, la
pretesa di assolutezza di Cristianesimo e Islam e i metodi missionari, troppo
spesso basati su una propaganda aggressiva, tendente a demolire l’Induismo
mediante la denigrazione dei suoi testi sacri, delle sue credenze e dei suoi
culti, sono sempre stati respinti con decisione e hanno suscitato anche reazioni
apologetiche e polemiche. Ciononostante, la tendenza induistica è stata spesso
quella di cercare di accogliere gli elementi positivi presenti in queste fedi
straniere e nei loro libri sacri.
Resta senza
dubbio una caratteristica propria dell’Induismo quella di riuscire ad assorbire
e rielaborare elementi appartenenti a tradizioni religiose ad esso estranee,
senza per questo perdere la propria identità. Si può forse dire che proprio
grazie a questa caratteristica l’Induismo è riuscito a resistere a tutte le
offensive missionarie volte a distruggerlo.
In certi casi,
infatti, assorbire e rielaborare elementi di una tradizione religiosa estranea
ha significato, di fatto, neutralizzarla.
Questo,
naturalmente, non dovrebbe portarci a credere che tale processo di assorbimento
e rielaborazione sia qualcosa di studiato a tavolino, qualcosa di deciso a
priori, per puri scopi difensivi. Al contrario, possiamo dire che questa
tendenza ad accogliere elementi provenienti da altre tradizioni religiose sia
frutto di una concezione ottimistica del pluralismo religioso, in base alla
quale in ogni tradizione religiosa, anche quella più lontana dalla propria, vi
sarebbe qualcosa da imparare e forse da far proprio.
È per questo
che l’Induismo è riuscito a accogliere in sè anche elementi provenienti dalle
due religioni che più di tutte le altre lo hanno combattuto accusandolo di
superstizione, politeismo e idolatria: l'Islam e il Cristianesimo.
Dall’incontro-scontro tra Induismo e Islam sono nati, ad esempio, riformatori
religiosi del calibro di Kabir (1398-1518) e di Guru Nanak
(1469-1538), il fondatore del Sikhismo.
Kabir, poeta
oltre che mistico, scrive:
«A che giova prosternarsi verso l’ovest,
o recitare distrattamente la preghiera quotidiana,
o il recarsi in pellegrinaggio alla Kaaba?
L’Allah che aleggia invisibile nella quiete della moschea
e l’idolo che troneggia tra le offerte nel clamore del tempio
non sono due diversi dèi.
Stolto fu colui che divise in due il mondo
assegnando ad Allah l’occidente e a Rama l’oriente!
Scopri dunque in Signore nell’intimo di te stesso,
Egli è ad un tempo Rama e Allah».
Di Guru Nanak
propongo due testi:
«La religione
non è vestire abiti rappezzati, impugnare il bastone del monaco pellegrino,
cospargere cenere sul corpo.
La religione
non è l’anello portato alle orecchie, il capo rasato, il suonare del flauto.
Fra le
impurità del mondo rimani puro, imboccherai il sentiero della religione.
Le parole pure
non sono la religione. Chi ha stima di tutti gli uomini è religioso.
Il
pellegrinaggio alle tombe o ai sepolcri non è religione, neppure il rimanere
seduti contemplando o l’andare pellegrinando in regioni straniere.
Fra le
impurità del mondo rimani puro, imboccherai il sentiro della religione.
I dubbi
svaniscono nell’incontro con il vero Maestro, gli smarrimenti mentali scompaiono.
L’ambrosia
scende nel cuore, musica ammaliante risuona, l’uomo si immerge nella gioia.
Fra le
impurità del mondo rimani puro, imboccherai il sentiro della religione.
Vivi
incontaminato nel mondo, come fiore di loto che si posa sulla palude o uccello
che volteggia sopra le nebbie.
O Nanak, la
comunione dell’anima col verbo ti farà traversare immune l’infinito oceano delle
apparenze».
Il secondo
testo dice:
«La scoperta
del suo Amore equivale ad innumerevoli pellegrinaggi.
Niente ti è
utile e nulla ti serve se rimani lontano dal suo Amore.
Volgi lo
sguardo a tutto il creato e vedrai che nessuno è giunto alla salvezza senza la
sua Grazia.
Ascoltando gli
insegnamenti del Maestro scoprirai in te incalcolabili ricchezze spirituali.
Il Maestro mi
ha insegnato una cosa: uno solo è il Signore, il Donatore di tutto, ch’io mai lo
dimentichi.
In comunione
con il Verbo diverrai la dimora della Verità, della Gioia, della Conoscenza.
Otterrai le
stesse grazie inerenti alle abluzioni compiute nei posti di pellegrinaggio.
Avrai la stima
dei saggi e la tua mente si ricomporrà dimorando in Dio.
I fedeli
adoratori del verbo vivranno un’estasi continua, il verbo cancellerà ogni colpa
e sofferenza».
Di Kabir, che
aveva tanto discepoli hindu quanto discepoli musulmani, si racconta che, quando
morì, sia gli uni sia gli altri se ne contendessero il cadavere, gli hindu per
cremarlo secondo il loro uso, i musulmani per sotterrarlo secondo la pratica
islamica. La leggenda afferma che, quando andarono a sollevare il lenzuolo che
copriva il corpo del maestro, trovarono che, al di sotto del lenzuolo, era
rimasta solo la sagoma del corpo composta da migliaia di fiori. Così non vi fu
più bisogno di litigare e una metà dei fiori venne bruciata, mentre l’altra metà
venne sepolta.
Anche
l’analisi della storia dell’incontro tra Induismo e Cristianesimo potrebbe
essere un ottimo esempio per illustrare il tipo di rapporto che l’Induismo,
nella sua varietà, tende ad instaurare con l’alterità extrareligiosa.
Sebbene tale
incontro, secondo alcune tradizioni, sia avvenuto già nei primi secoli della
nostra era, è certamente vero che il confronto più intenso tra Induismo e
Cristianesimo si è avuto tra il XIX e la prima metà del XX secolo, cioè nel
periodo in cui l’India dovette maggiormente misurarsi con il potere coloniale
occidentale e con la propaganda missionaria (soprattutto protestante).
A differenza
delle missioni cattoliche, quelle evangeliche si preoccuparono innanzitutto di
tradurre e diffondere la Bibbia nelle lingue locali e perciò molti hindu, che,
pur respingendo gli appelli dei missionari alla conversione, non disdegnarono di
confrontarsi con le Scritture cristiane, vennero in contatto con il Gesù dei
Vangeli di fronte al quale non restarono indifferenti.
Fu così che,
mentre per alcuni Cristo rimase uno straniero o un invasore, altri riconobbero
in lui un maestro, un profeta, un avatara (cioè una incarnazione di Dio),
o un liberatore dall’oppressione sociale e religiosa.
Le
interpretazioni di Cristo che vennero elaborate in quel contesto sono anche
quelle tuttora presenti, con qualche eccezione, nell’Induismo contemporaneo.
Naturalmente
si tratta di letture che si discostano, talvolta in modo notevole, dalla
ortodossia cristiana tradizionale.
La
disponibilià all’ascolto e all’accoglienza dell’altro propria dell’Induismo ha
senza dubbio fatto sì che nel XIX e nel XX secolo alcuni spiriti illuminati
ricavassero dall’incontro con il Cristo dei Vangeli il desiderio e la volontà di
liberare l’Induismo da deformazioni e abusi accumulatisi nel corso dei secoli (superstizione,
sati, sistema castale, etc.). Sarebbe però esagerato ritenere che tali abusi
siano strutturali e che l’Induismo, prima di confrontarsi con il Cristianesimo,
non conoscesse nulla di quell’amore del prossimo di cui parlano le Scritture
ebraiche e cristiane.
Può essere
significativo, a questo proposito, notare come la famosa regola evangelica detta
“regola d’oro” («fai agli altri ciò che vorresti fosse fatto a te») sia già
presente nelle antiche Scritture hindu:
«Questa è la sommità di tutte le virtù: compòrtati con gli altri come vorresti
che gli altri si comportassero con te; non fare al tuo prossimo ciò che tu non
vuoi egli faccia a te (...) Tu seguirai la giusta norma, se considererai il tuo
prossimo come te stesso» (Mahabharata, XII, 5571).
«Perfino al nemico, se egli ti chiede ospitalità, non negargliela; non offrono
forse gli alberi la loro ombra e la loro protezione anche a coloro che li
tagliano?» (Ibid., XII, 5528).
«Non ferire il tuo prossimo, neppure se ti provoca: non fare male ad alcuno né
con il pensiero, né con l’azione; non pronunciare parole che possano recare
dolore agli altri» (Le Leggi di Manu, II, 161).
«Non disprezzare nessuno; sopporta le calunnie con pazienza; non ti adirare con
colui che si adira e benedici colui che ti maledice» (Ibid., VI, 47-48).
Come si vede,
l’immagine del prossimo e il tipo di rapporto da instaurare con esso, così come
emergono dalle Scritture hindu, presentano caratteri di straordinaria vicinanza
agli insegnamenti evangelici e possono costituire una base comune dalla quale
partire per un proficuo dialogo interreligioso.
Che poi questo
dialogo possa condurre a convergenze dottrinali è poco probabile.
D’altra parte,
non è una tipica preoccupazione induista quella di raggiungere accordi sul piano
dottrinale, dal momento che esso considera positiva e necessaria l’esistenza di
una pluralità di religioni.
L’immagine che
forse meglio di altre può sintetizzare questo atteggiamento ottimistico
dell’Induismo nei confronti del pluralismo religioso (e quindi anche della
alterità extrareligiosa) è quella dell’albero, utilizzata dal mistico
Ramakrishna.
Per
Ramakrishna (1836-1886) le molte religioni sono rami dello stesso albero e vie
allo stesso Dio.
Sul perché
quello stesso Dio venga percepito in modi così diversi e addirittura
contraddittori gli uni rispetto agli altri, gli hindu rispondono qualche volta
raccontando la parabola di un gruppo di ciechi nati i quali, per capire come
fosse un elefante, si misero a tastarlo; ma, siccome ognuno ne tastava solo una
parte, le descrizioni dell’animale non potevano che essere differenti le une
dalle altre. Chi ne toccava la proboscide affermava che l’elefante era come una
specie di serpente, chi ne toccava le zampe affermava che l’elefante era come
una colonna, chi ne toccava la testa affermava che l’elefante era come una giara.
Prendendo
spunto da questa parabola, potremmo concludere dicendo che di fronte a Dio siamo
un po’ tutti nella stessa situazione di quei ciechi che hanno ragione finché
descrivono la parte che hanno percepito, ma hanno torto quando pretendono di
affermare che ciò che essi hanno percepito corrisponde al tutto.
Da una
prospettiva cristiana direi che lo stesso apostolo Paolo sembrerebbe essere
consapevole che la comprensione globale del mistero di Dio non è alla nostra
portata e non può che essere posta alla fine dei tempi, se nella I lettera ai
Corinzi scrive:
«Poiché ora vediamo come in uno specchio, in modo oscuro;
ma allora vedremo faccia a faccia;
ora conosco in parte; ma allora conoscerò pienamente,
come anche sono stato perfettamente conosciuto» (I Corinzi
13,12)
(Testo redatto dall’Autore)
[1]Santo
e capo religioso, fondatore del Sikhismo. Stimolato dalle infelici lotte tra
hindu e musulmani, sognò l’incontro tra le due fedi, poiché in entrambe
vedeva solo due diversi tentativi di giungere allo stesso Dio. Non riuscì a
concilliare le due religioni in lotta, ma attrasse a sé un grande numero di
discepoli che si costituirono poi nella religioni a noi nota come Sikhismo.
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